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Adozioni d'autore
Dalla cantante Giorgia al Premio Nobel Dario Fo, dal calciatore Javier Zanetti al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, dall’astronauta Paolo Nespoli al filosofo Gianni Vattimo: 23 personaggi (ad oggi) hanno aderito per Io donna all’iniziativa promossa dalla Società Dante Alighieri.
GIBIGIANNA

  La gibigianna è un termine lombardo piuttosto antico che si ritrova ancora nel linguaggio ormai italianizzato del nostro conversare moderno ma che è entrato a pieno titolo anche nella letteratura italiana. Carlo Emilio Gadda usava questo termine normalmente e alla fine dell'800 lo troviamo addirittura come titolo di una fortunata commedia di Carlo Bertolazzi scritta in dialetto milanese, La gibigianna appunto. Gibigianna significa luminello, riflesso di luce – che dura un attimo - procurato da specchi o dalle acque di un lago limpido, in cui il sole riflettendosi produce lampi che si proiettano nell'aria specie in controluce. Ma dobbiamo ammettere che gibigianna dal punto di vista onomatopeico e, azzarderei, melodico, è di gran lunga più piacevole, oserei dire poetico, di tutti gli altri termini usati nella lingua ufficiale proprio perché riesce a dare il senso del fremere nell'aria di qualcosa che giunge improvviso come muovendosi per gioco magico. Gibigianna significa illusione o, se preferite, trappola melodiosa e affascinante. Per questo è una espressione che ancora oggi viene usata, almeno nella nostra città, con emozione. "Far la gibigianna" significa quindi alludere e illudere qualcuno, specie un innamorato, di un sentimento spesso solo illusorio ma sempre molto affascinante.
(Credit: Milestone)

Dario Fo 
FUGGEVOLEZZA

  Gli amanti sono i re della fuggevolezza, per loro tutto passa presto, un incontro segreto, un bacio nascosto, uno sguardo rubato, niente dura a sufficienza da sfamare quella voglia di aversi e tutto passa sempre presto perché proprio questo determina il loro amore. Gli amanti parlano di niente, le parole sono una scusa per guardarsi e poi fare l'amore che si consuma anch'esso con fuggevolezza e con l'ansia mista alla colpa di dover tornare alla vita di ogni giorno in cui sognare e desiderare per tutto il tempo di rincontrarsi con l'angoscia consapevole di non poter fermare o prolungare quell'attimo in cui "eravamo insieme", ma è nella fuggevolezza di un istante d'amore che prospera la voglia e vive il desiderio molto più a lungo dell'oggetto di quel desiderare, che è tale proprio perché non si può avere a lungo. Si salutano sempre gli amanti, vanno via scappano e si separano nell'irresistibile atroce fuggevolezza di un abbraccio.

Giorgia 
FUGGEVOLEZZA

  La partita è fuggevolezza. Novanta minuti, al massimo centoventi in alcune rare occasioni. Episodi, emozioni, colori, profumi. Tutto passa, si apre e si chiude una porta velocemente e resta uno spogliatoio. Nella testa e nel cuore, nel bene e nel male, nelle vittorie e nella sconfitte, resta tutto, ma niente la prossima volta sarà uguale a quella che è appena finita. 
Eppure, dietro la fuggevolezza di una partita, c’è una lunga preparazione, c’è una carriera, c’è un lavoro che molti raccontano nella sua essenza sportiva, cioè il divertimento, ma in realtà è anche costanza, salite, sacrificio, abbandono, ripetitività, dolori. Tutti elementi che potrebbero avvicinarti alla resa, all'abbandono, alla sconfitta che non ti rialza più. Invece un risultato negativo porta ancora più voglia di fare: di sudare, di correre, di provare. 
Tante volte mi sono chiesto il perché di questa reazione naturale, di questa risposta a me stesso senza domanda… È la passione che domina ogni atto, che accende la luce anche quando ti sembra di non aver più corrente, che ti manda mille volte oltre quella porta, oltre quella fine di una partita che non ci sarà mai più, nel bene e nel male. 
È per riassaporare la fuggevolezza di una partita che sono ancora qui, in mezzo al campo, tra amici e avversari, tra calci e carezze, tra applausi e insulti, a inseguire un pallone, in braghe corte, con la pioggia dentro gli occhi o il corpo che scoppia dal calore. Una maglia nerazzurra appiccicata alla pelle. Qui, come fosse sempre la prima volta. E mai l’ultima. 
(Credit: Olycom)

Javier Zanetti 
DIRIMERE

  Sono particolarmente legato alla parola "dirimere". Ripeterla nella mente, scriverla all'interno di un testo, anche se oggi si usa meno di una volta, mi fa tornare indietro nel tempo, ripercorrendo gran parte della mia attività professionale da avvocato. Ancora mi ricordo quando sono entrato in un’aula di tribunale per il mio primo caso da seguire e che un giudice aveva il compito di dirimere, appunto. Mi sentivo gli occhi di tutti puntati addosso, cercavo di apparire sicuro, pur sapendo di avere una grande responsabilità, perché dirimere una questione significa risolvere ma anche scegliere, prendere una decisione. La mia passione per il diritto nasce proprio dal fatto che l’obiettivo del processo è quello di chiarire in base a delle regole certe se sono stati compiuti dei reati o meno. Ora nel mio nuovo ruolo di sindaco sono io a dover dirimere tante questioni, non è sempre facile, ma ci metto tutto il mio tempo e la mia passione. Il viaggio a ritroso che percorro attraverso la parola "dirimere" arriva anche ai ricordi dell'infanzia, eravamo in 7 fratelli: 2 femmine e 5 maschi. Ai miei genitori, più spesso a mamma Margherita, l’onere di dirimere le liti, questa volta non quelle nelle aule di tribunale, bensì quelle fraterne. Liti che quando eravamo bambini ci sembravano importanti, nessuno di noi cedeva di un millimetro dalla propria posizione, erano i nostri piccoli grandi conflitti. E questo succedeva continuamente. Il verbo "dirimere" quindi è come un binario sul quale ripercorro, e continuo a percorrere, il viaggio della mia vita, da ragazzo prima, poi da avvocato e oggi da sindaco. È per questo che lo voglio salvare.
(Credit: Milestone)

Giuliano Pisapia 
DIRIMERE

Il momento più strano era di mattina, quando la sveglia ti scuoteva dal torpore del sonno e aprivi gli occhi nel buio pesto della cuccetta. Dove sono? Ti veniva da chiederti in una confusione di stimoli e sensazioni. Dirimere la realtà dalla fantasia era ancora troppo difficile: il sistema vestibolare ti diceva che stavi cadendo e chiaramente ti indicava che eri a testa in giù. Gli occhi si focalizzavano sui LED del computer e ti dicevano che eri fermo, e il cervello analizzava tutti questi dati paradossalmente in contraddizione, e giungevi alla conclusione che probabilmente eri sospeso a mezz'aria a testa in giù, forse in galleggiamento nel vuoto. Certo, dirimere la cosa sarebbe stato più' facile se si fossero accese le luci. Ma dov'è l'interruttore della luce? Mai dove pensi che sia, e lo trovi a tastoni solo dopo diversi tentativi. Con la luce accesa diventava tutto più facile: riorientarsi all'interno della cuccetta era possibile, come possibile era sopprimere la sensazione di cadere nel vuoto, sensazione corretta, visto che eravamo in assenza di peso in orbita a 400 chilometri attorno alla terra. E così, giorno dopo giorno, la storia si ripeteva, come se ogni giorno dopo il sonno non ti ricordassi di essere dov'eri e dovevi imparare tutto da capo. L'intelligenza artificiale cerca di emulare quella umana percorrendo tre sentieri: la quantità di informazioni, la loro qualità e la loro integrazione. È l'integrazione che permette di discriminare, percepire le differenze e vedere gli aspetti comuni, intuire l'unità oltre la diversità. Per dirimere le situazioni complesse del nostro tempo occorre sviluppare uno sguardo che abbraccia l'immensità pur vivendo nella piccolezza quotidiana. Dirimere è un esercizio della consapevolezza che deriva dalla sintesi tra questi due estremi.
(Credit: Milestone)

Paolo Nespoli 
LUSINGA

Da quando faccio (anche) il politico in una società cosiddetta democratica, e che è una società della comunicazione – cioè della pubblicità – generalizzata, ho cominciato a capire il senso della lusinga. Non dirò che tutto è lusinga, per non incorrere nella obiezione hegeliana su tutte le vacche nere – non ci serve saperlo, se lo sono tutte . Ma certo è proprio pensando alla politica che mi appare la pervasività della lusinga. E cioè la componente emotiva, addirittura erotica, del rapporto sociale e del gioco del potere. Mi si invita a votare secondo scelte razionali, invece che affidarmi a un caudillo, a un capo carismatico, a un capopopolo: Castro, Chavez, Lenin, Evo Morales... Meglio la struttura democratica dei nostri partiti: tesseramento, congressi, dibattito, elezioni primarie. Ahi, e queste davvero sono dominate dalla scelta razionale? E se devo partecipare al referendum sul nucleare a chi do retta? Agli scienziati; se non sono d’accordo fra loro, solo ai "migliori". Già, e io li so giudicare? Finisce che do retta al fisico della mia parrocchia,a uno che mi piace, mi è simpatico... Non sarà proprio questo lusinga? E cioè il segno che la storia non è affatto razionalità ma emozione, amore; forse, alla fine, caritas?
(Credit: Milestone)

Gianni Vattimo
PROPINATE

Nomine fatte col manuale Cencelli, centralismo democratico, unità d’intenti, verso convergenze parallele, serve una cerniera intermodale, sotto un certo profilo, questa persona è una risorsa per il partito, tavolo di concertazione, blocco sociale, sintesi feconda, felice connubio, pacchetto di sinergie, confluenza verso obiettivi comuni, forte condivisione, visione organica, occorre abbassare i toni, situazione contingente, dialogo interdisciplinare, adoperarsi per il bene comune, facciamo un ragionamento, mettere in campo delle politiche, analisi delle problematiche. Per favore, basta. Smettetela. Non ci propinate più tutte queste parole trite, tristi, vecchie, stanche, questi riti vuoti, questi panegirici estenuanti. Basta. Dateci invece parole di passione, coraggio, bellezza. Fateci muovere e commuovere secondo ritmi nuovi. Fateci riscoprire che si può parlare di politica senza quel grigiume al quale ci avete abituato. Fateci di nuovo innamorare della cosa pubblica, fateci di nuovo assaporare il gusto di governare insieme il nostro domani. Con parole chiare, semplici, facili. Lo possiamo fare, ce la dobbiamo fare.
(Credit: Milestone)

Matteo Renzi 
AFFASTELLARE

Affastellare non è un verbo usuale eppure dice il nostro passato di fascine legate in fretta e male, 
dice il disordine della nostra vita attuale. 
Mi piace coniugarlo legato all'infinito del legare. 
Amo la sua variante scura che è l'accatastare. 
Se lo smontiamo diventa una parola ancora più inusuale 
che parla di una stella 
e di un soffio nella fatica del cercare. 
Leggila, diventa: aff-a-stellare. 
Potresti ancora giocare. Togli una effe e avrai nella canicola d'estate Sirio con il suo cane, smarrito in un calore di rame. 
Guarda il cielo 
di notte. Immagina quei sogni 
sono costellazioni perse dentro un'afa-stellare. 
Affastellare ci confonde mentre confondiamo. 
Pensiamo alla rinfusa rovesciando immagini e memorie 
intrecciando ciò che avremmo fatto meglio a lasciare.
Pensiamo? 
Pensiamo siano pensieri 
invece - nessuno se ne accorge
- ma chi più chi meno - stringe solo fuscelli di legno, paglia o fieno.

Antonella Anedda
STANTIO

La memoria olfattiva e sensoriale è una banca dati inesauribile. Come una colonna sonora, si presenta puntuale in alcuni momenti della nostra vita e puntuale ci riporta indietro nel tempo. Le papille gustative sono dei sensori, dei cronometri. Anch’esse sono scansione della memoria: sapori di gioie troppo veloci e di dolori che sono rimasti lì, stantii. Gusti andati a male, frecce di vita che non sono scoccate. Un giorno, passeggiando lungo un mare pesante, più palude che onde, mi è tornato in bocca un gusto di tanti anni fa. Avevo visitato case povere, rassegnate, dove l’approssimazione e l’arte di arrangiarsi si era fatta fisiologica. Destini che si percepivano senza movimento, senza futuro. Dentro gli occhi sguardi che non avevano più direzioni. Un odore, un ricordo: una fitta. Un dolore mal digerito, stantio. Mi sono sentito sommerso da quella sensazione, da quella mortificazione e in quell’istante in me ho scelto di provare a cambiare la vita altrui. Dargli un sapore nuovo, un’onda che dal palato potesse arrivare alla vita. Ho lavorato e lavoro per questo, cerco sapori che disegnino ricordi migliori. Cucino per loro, preparo piatti sempre nuovi per queste persone. Sapori di speranza, di futuro. Scelgo profumi che siano bracciate forti per portare in riva allo stagno.
(Credit: Milestone)

Filippo La Mantia
FRONZOLI

Più di tutto mi piacciono i fronzoli! Tutti quei dettagli che non servono a nulla. Tutte quelle cose che secondo logica non sono necessarie, che in un riassunto scompaiono, che secondo tanti sono una perdita di tempo. Per me invece i fronzoli sono il sale della vita: un bel romanzo senza fronzoli sarebbe solo una storia; la mia esistenza,senza fronzoli, non la potrei sopportare - mi basterebbe leggerla su un giornale di moda. La moda senza fronzoli non esisterebbe proprio, provate ad immaginarvela spogliata di paillettes, rouches e frange, senza spille né bracciali! La moda é in realtà proprio un "fronzolo" in essere: è lì, senza motivo d'esistere, senza servire alcuno scopo, è una perdita di tempo e uno spreco di danari. Non fa altro che farci sentire più belli, che rallegrarci, che riempirci gli occhi; ci fa sognare altri mondi e a volte per un attimo riesce a farci dimenticare le cose brutte. Personalmente mi emoziona, questo fronzolo. Spesso sono infatti i fronzoli ad emozionarci, a colpirci: l'imponenza del duomo di Milano senza quelle "guglie di zucchero" non credo toglierebbe il fiato; Cent'anni di solitudine, senza fronzoli, non avrebbe motivo d'esistere.
(Credit: Milestone)

Margherita Maccapani Missoni
UGGIOSO

Un tempo, nelle frasi, tra la tristezza e la noia, c’era un’ombra. Non un’ombra qualsiasi, quelle sono ancora rispettabilmente presenti nelle frasi quotidiane. Era l’uggia, l’ombra degli alberi che impedisce alle piante di crescere bene, come dicono i vocabolari. Quindi adesso saranno gli italiani a non crescere bene. Perché la parola uggia, uggioso, uggiosità sta morendo. Lasciando un buco anzi una luce incolmabile, senza un’uggia ad addomesticarla. L’uggia se ne va e non c’è nessuno che uggiola per riportarla indietro. Anna ha un problema, e un fidanzato uggioso di nome Pietro. Noiosamente malinconico, non parla quasi mai. Ma non è questo il problema. L’uggiosità di Pietro rende Anna piena di uggia, quell’inquietudine sdrucciolevole con una scia di irritazione. Ma non è nemmeno questo il problema: il problema è che Anna non conosce la parola uggioso. Non l’ha mai vista in un libro (soprattutto perché non legge, a parte Twilight), né sentita in un film (soprattutto perché non ne vede molti, a parte Twilight) nè sulle labbra dei suoi amici (nemmeno quando parlano degli uggiosi vampiri di Twilight). Anna oggi ha lasciato Pietro, ma non perché non sopportasse la sua uggia: era un’uggia senza nome a essere insopportabile, perché si portava dietro tutte le tristezze dell’umanità.
(Credit: Milestone)

Viola Di Grado
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